E’ stata la voce di apertura del convegno internazionale “Romano Guardini – Un ponte tra due culture” – promosso dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento in collaborazione con il neonato Istituto Superiore di Scienze religiose “Romano Guardini” – che dal 2 al 4 ottobre ha riunito al Polo culturale diocesano Vigilianum i massimi esperti del grande pensatore italo-tedesco, in occasione dei cinquant’anni dalla sua morte (1 ottobre 1968, era nato nel 1885 da padre veronese e madre trentina). Parliamo di Isabella Guanzini, docente di Teologia fondamentale all’Università di Graz, a cui è stata affidata la prolusione istitutiva della «Cattedra Guardini». Partendo dall’interrogativo “Europa con o senza religione?” ha offerto un’intensa riflessione su “Il contributo di Romano Guardini a una interpretazione religiosa dell’Europa del presente e del futuro” (vedi Vita Trentina, n.39, 7 ottobre 2018).
L’Europa deve fare spazio all’altro, accogliere e contrastare la “globalizzazione dell’indifferenza” di chi alza muri e chiude porti e nel saggio “Tenerezza” (Ponte alle Grazie, 2017), Isabella Guanzini evoca tra le figure che incarnano la tenerezza i naufraghi del mare alle porte d’Europa, a Lesbo e Lampedusa, richiamando all’etica della cura, base di “un’esperienza di fraternità” che aiuta a riscoprire il senso dei legami e dell’essere prossimi all’altro.
“La tenerezza, lungi dal ridursi a sentimentalismo, è il primo passo per superare il ripiegamento su sé stessi, per uscire dall’egocentrismo che deturpa la libertà umana“. Così Bergoglio si è rivolto ai partecipanti al convegno nazionale “La teologia della tenerezza in Papa Francesco” promosso dal “Centro Familiare Casa della Tenerezza” di Perugia nell’udienza privata dello scorso 13 settembre.
“Non dobbiamo avere paura della bontà e neanche della tenerezza”: è la provocazione che Papa Francesco ha lanciato fin dal discorso di inizio pontificato, invitando a considerare la forza sovversiva di ciò che appare debole e vulnerabile come punto cardine del Cristianesimo.
Il saggio è ispirato dalla lettura di Evangelii Gaudium e dell’invito di Francesco a una “rivoluzione della tenerezza”. La tenerezza ha il potere di modificare il nostro elementare incontro con il mondo. Non per nulla, nella sua lettera ai Corinzi, l’apostolo Paolo ha avuto il coraggio di dire: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2 Cor 12,10). Qui si può percepire una sorta di disarmo dell’io, delle sue pretese eccessive, imparando un atteggiamento di abbandono al mondo, che non ha nulla a che fare con fughe utopistiche o romanticherie svenevoli.
Associamo il potere alla prestazione vincente, al dominio, mentre proviamo pudore o disagio nel mostrarci teneri: significa essere indifesi, esposti.
Il potere gentile della tenerezza sta nella sua capacità di accogliere e non rimuovere la condizione di vulnerabilità e finitezza che segna ogni esistenza. Occorre molta forza nel mantenere uno sguardo lucido nei confronti della nostra fragilità, che fa cadere ogni maschera e ogni pretesa totalitaria dell’io, ma è questa coscienza, che ha i tratti di una libertà inoperosa e tuttavia molto feconda, che ci rende molto forti.
Lei afferma che la tenerezza riguarda potenzialmente qualsiasi spazio della vita collettiva e non è illusoriamente consolatorio pensare che sia una virtù anche politica, necessaria per abitare in modo più solidale il mondo.
In una sorta di dinamismo generativo che dona fisicità agli incontri, il reciproco intenerirsi e affezionarsi corrisponde a una reciproca donazione di senso, in cui ciascuno lascia la propria impronta sul corpo e sull’anima dell’altro. Grazie a tale flusso molecolare di affetti e di sensibilità sociali, che si trasmette come per travaso di corpo in corpo, si costruisce la polis, ossia un mondo comune di differenze.
Essere rivoluzionari oggi significa saper praticare una forza che non invade, ma rispetta l’altro e resiste all’insensibilità e all’indifferenza che portano all’isolamento e alla disgregazione: sl potere gentile sembra alludere anche “La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità” (Vita e pensiero, 2018) del filosofo Josep Maria Esquirol.
Essere rivoluzionari significa cercare un punto di resistenza e di inclinazione, che modifica i nostri percorsi individuali e collettivi. Il clinamen, come gli antichi filosofi atomistici nominavano una piccola inclinazione casuale che devia la traiettoria degli atomi in modo che si possano incontrare/scontrare, è precisamente il lavoro della politica. Ma è anche il lavoro della tenerezza: essa è infatti una forza che preme su traiettorie individuali troppo concentrate su se stesse, per risvegliarle a un’altra dimensione di socialità. La tenerezza rende flessibili e disponibili all’incontro: è il clinamen delle nostre durezze, capace di curvaci nella direzione dell’altro.
La tenerezza è generativa, trasforma il pensiero del sentirsi vicini a qualcuno in gesti reali che mostrano il lasciarsi coinvolgere dalla vita dell’altro, partecipare, condividere, instaurando un contatto che aiuta a riscoprire il senso dei legami, ma oggi le relazioni sono fragili, temporanee, discontinue.
La rivoluzione gioiosa della tenerezza destabilizza e disarticola il monolitismo compatto del potere, dove i soggetti languiscono in una tristezza inattiva, per far circolare la potenza aggregante degli incontri e dei contatti fra i corpi. Si tratta di un progetto che resiste e reagisce a ogni regime di oppressione, di paura e di separazione, nell’intenzione di produrre una socialità gioiosa, in cui la vita chiama la vita, in un lavoro infinito di costruzione del comune. Tale processo rappresenta una mutazione radicale di codici e di priorità all’interno della dialettica comunitaria, capace di seguire il richiamo degli affetti e la contemplazione delle relazioni elementari.
Tenerezza è “percezione profonda dell’infinita precarietà e fragilità della vita”, è piangere insieme all’altro, ma è un dono audace, che dilata il tempo.
La tenerezza è in questo senso un contro-potere: sa guardare e toccare con gentilezza i tratti più vulnerabili e indifesi dell’umano. È infatti possibile considerare la tenerezza come categoria filosofica significativa non in quanto esperienza di un vago sentimento di vicinanza e di empatia, ma in quanto percezione elementare della finitezza, ossia della fragilità e caducità di tutte le cose. Si prova in certo modo “tenerezza per il finito”: ciò indica la presa di coscienza della consistenza delicata del reale e dunque il sentimento elementare dell’incontro del soggetto con la caducità del mondo.
Sarà la tenerezza, oltre alla bellezza, a salvare il mondo?
Potrebbe apparire ingenuo o persino patetico pensare che l’eroe di questa impresa, che possiede la forza necessaria per contrastare ogni durezza, sia la tenerezza. Eppure un gesto di tenerezza ci ha messi al mondo e un gesto di tenerezza ci ha tenuti in vita, perciò si può anche pensare che solo grazie a gesti di tenerezza la vita possa sprigionare la sua vera potenza: rigenerare gli umani e dare vita alle cose. Se infatti nella lingua della tenerezza originaria veniamo al mondo, soltanto grazie alla lingua della tenerezza ordinaria possiamo continuare ad abitarlo e a generarlo in modo umano.
a cura di Patrizia Niccolini
Foto: Zotta