“Tradizione non è adorare le ceneri, ma tenere acceso il fuoco” ha detto il compositore Gustav Mahler. E allora le chiediamo in questo desiderio di forte rinnovamento, come impedire però di lasciar per strada il positivo che si è visto e realizzato in passato?
domanda alla quale mons. Tisi ha risposto a braccio all’assemblea pastorale a Lavis
Vi ringrazio molto di questa domanda, perché mi dà il modo di precisare che l’insistenza di questi mesi sulla necessità di cambiare e avere un passo nuovo non significa per nulla cancellare tutto quello che il passato ci ha consegnato. Questo peraltro vale anche sul piano personale. Ognuno di noi è anche il suo passato, quello che faccio oggi è anche frutto del mio passato, è il mio passato. Nessuno di noi azzera dunque totalmente quanto successo prima. Anche l’espressione “dobbiamo girare pagina” è riduttiva, perché ci portiamo sempre dietro le pagine precedenti. Come comunità ecclesiale trentina sappiamo poi di avere alle spalle un passato in tanti aspetti molto positivo. Vi invito a pensare ad esempio al valore vissuto dell’accoglienza: se ascoltiamo i nostri anziani, ci raccontano che un tempo quando passava dalle case un povero o uno straniero veniva sempre ospitato, era normale aggiungere un posto a tavola o dargli un tetto per la notte. Le nostre comunità erano terreno di accoglienza. Quest’atteggiamento diffuso va salvato, va ripreso, raccontato. Un altro esempio: era normale in certi paesi piccoli convocarsi la domenica anche se il parroco non poteva essere presente. In questo ritrovarsi c’era anche il valore di un incontro, il coraggio di fermare il tempo e darsi un appuntamento in chiesa. Penso anche – e lo posso testimoniare personalmente – come fosse condivisa nella comunità l’attenzione a prendersi cura delle famiglie bisognose con figli orfani, fornendo loro i vestiti e altri aiuti materiali. E farlo in modo discreto e spontaneo, senza nemmeno organizzare comitati a questo scopo. Se tante volte si parla di controllo sociale nei paesi piccoli, dobbiamo prendere atto che c’era anche una grande carità “sociale”, esercitata comunitariamente.
Ed è giusto rifarsi a queste vicende quando si richiama l’importanza di educare alla carità l’intera comunità cristiana, senza delegare tutto ai gruppi Caritas o ai ministri dell’Eucaristia. Penso anche a tanti cristiani che dedicavano la domenica ad andare all’ospedale a trovare gli ammalati del paese.
Quando penso alla tradizione allora non penso ad uno stendardo da rispolverare e portare nelle strade – pur non avendo nulla contro le processioni, anzi – ma a questi vissuti di fede che sono vero annuncio del Vangelo. Altrimenti il rischio è che della tradizione conserviamo qualcosa che non è essenziale. Su questo dobbiamo sempre discernere insieme.
Arcivescovo Lauro