“Anche solo poche settimane fa ero lontano dall’immaginare che la mia Quaresima, in termini di Quarantena, avrebbe voluto dire “incontro ravvicinato con il coronavirus”. E invece sì, ne ho subito il contagio, e ora vi devo scrivere da un ospedale (reparto infettivi, per l’esattezza).
E’ l’inizio della toccante testimonianza di don Piero Rattin pubblicata sull’ultimo numero di Vita Trentina e subito sotto riportata.
Dal suo letto di ospedale don Piero suggerisce anche un’antica forma di preghiera in occasione delle calamità, i sette salmi penitenziali, che lo stesso biblista trentino accompagna con una invocazione finale. SCARICA I TESTI DEI SALMI
DI SEGUITO L’EDITORIALE SUL SETTIMANALE DIOCESANO:
di Piero Rattin
Chiedo scusa ai lettori di Vita Trentina se il tono di questo editoriale zoppica un po’ troppo sul terreno dell’esperienza personale. D’altra parte anche solo poche settimane fa ero lontano dall’immaginare che la mia Quaresima, in termini di Quarantena, avrebbe voluto dire “incontro ravvicinato con il coronavirus”. E invece sì, ne ho subito il contagio, e ora vi devo scrivere da un ospedale (reparto infettivi, per l’esattezza).
È come guardare le cose, e valutarle, stando dall’altra parte della barricata: confesso che è ben diverso. Come sono diversi gli ambiti che si vedono o le sensazioni che si provano. Non auguro a nessuno un’esperienza così, ma devo dire che, nonostante la fatica della sopportazione e la titubanza dell’incerto, essa non mi ha lasciato senza emozioni.
Mi riferisco, ad esempio, all’indefesso lavoro del personale sanitario. Sì, se ne parla ovunque con toni da encomio, che sono sinceri e credibili senza dubbio, ma anche un po’ generici. Valutare da qui è diverso. Ignoravo fino a che punto giungesse la dedizione del personale: operoso senza sosta, pur se oberato dalle esigenze di un’emergenza eccezionale, agisce nella lucida consapevolezza del limite da cui non si lascia deprimere, ma a cui cerca di compensare con gesti di servizio di squisita attenzione…
Ne sono certo e lo dico con assoluta franchezza: anche le forme patologiche più disperate, per gravità e per la costretta lacerante assenza all’ultimo capolinea di persone care, hanno avuto ed hanno calorosa e profonda vicinanza umana.
Ammiro questo personale, paziente, delicato, sempre incoraggiante. Lo ammiro pure per la costanza con cui ripete innumerevoli volte, prima e al termine d’ogni intervento di servizio, i gesti sempre uguali d’una meticolosa liturgia di tutela: di sè e di noi degenti. Nessuno dica: “È il loro mestiere, sono pagati apposta…”. Questi tempi di emergenza non preventivati hanno fatto emergere non pochi atteggiamenti contrastanti; ma tra tutti, i sintomi chiari e indubitabili di un’umanità che è comunque viva e capace d’esprimersi con solidale creatività. Mi chiedo solo: era necessario questo flagello per farcene accorgere?
Da degente condivido, con chi crede e con chi non crede, lo sgomento di sentirmi giocato da una potenza avversa e incontrollabile, la sensazione di una foglia secca alla mercé d’una tormenta che nessuno sa quando finirà. Sì, esperienze in tal senso si fanno anche in tempi normali, ma ora è diverso: ora è all’interno della convivenza civile che se ne percepisce la drammatica eventualità. E in termini di realismo tutt’altro che ipotetico. Questa sensazione di invincibile abbandono accomuna molti individui in questi giorni e io, credente, non trovo affatto strano doverla sperimentare con chi non ha la mia stessa fede: dopo tanti “distinguo” in tempi non sospetti, è ora di riconoscere che una stessa percezione del limite è credenziale irrinunciabile se intendiamo considerarci ancora, e a prescindere da ogni altra aggiunta, “umani”.
Certo, a me credente, suona scandaloso che il Dio che invoco a Liberatore (non solo per me) sia a tal punto renitente e poco propenso all’ascolto, da farmi ritenere più che legittime certe antiche conclusioni memorizzate nella Bibbia: “Ti sei avvolto in una nube, o Dio, perché la nostra supplica non giungesse fino a te”. “Perché fai il sordo alle nostre invocazioni?”. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Ciononostante, mi lascia perplesso il fatto che tali conclusioni siano passate con tutta l’autorevolezza di lui, il protagonista.
Credente mi ritengo tuttavia, non solo persona religiosa; mi permetto quindi d’interloquire contestando, perché mi sento espressione di una Chiesa non specialista in risposte, non esperta nello strappare a Dio favori per via di scorciatoie, ma sgomenta essa stessa nel constatare che le vie di lui non sono le stesse di lei, né i pensieri, i progetti e le attese coincidono…
È povera la fede. Questa catastrofica epidemia dovrebbe portare me, credente di Chiesa, a una più lucida coscienza di quanto è giustamente povera la fede. Per natura sua. Non è lasciapassare o salvacondotto per ottenere con facilità l’impossibile. E proprio perché povera sa essere audace, potente oltre ogni limite. “Padre, rimettermi alle tue mani – nonostante nulla sia chiaro – è infinitamente meglio che contare sulle mie… Ciò che tu hai in serbo è ben più prezioso di quanto io osi comunque domandarti con tenace e caparbia insistenza: per tutti e per me”.
Ma c’è un’ultima provocazione che sta scuotendo la mia povera fede. Si sta avvicinando la Pasqua: perché mai saremo costretti a celebrarla in modalità così anomale? Forse che anche Dio era saturo di cerimonie sempre eguali? Non può essere. Vero è piuttosto che Pasqua non ha mai né sminuito nè eclissato lo spirito, l’anima che l’ha creata: “Passaggio di Dio”, evento di liberazione, a condizione che gli uomini lo sappiano riconoscere, cogliere, e lasciarsene coinvolgere.
Pertanto prevedo che la domanda che farà da antifona alla mia povera preghiera nei prossimi giorni sarà questa: Dove passerai quest’anno, Signore? E come? Ebbene, non mi rifiutare ciò che ti chiedo, non me lo negare: coinvolgi anche me, anzi, noi tutti, nel tuo passaggio! E fa’ che sia davvero di liberazione!