La nostra società ci porta a pensare egoisticamente a noi stessi. Come è possibile educarsi a “dimenticare se stessi”?
L’osservazione che la nostra cultura produce egoismo è vera specialmente perché insiste tanto sulla persona – sui diritti della persona e sulla libertà della persona – diritti e libertà che si sentono limitati, minacciati dagli altri. Il problema sta nel promuovere la personalità e la libertà nostra e altrui con il terzo valore venuto in primo piano nella cultura moderna: l’amore. Risponderei quindi alla domanda in maniera paradossale: l’egoismo si supera non dimenticando se stessi, ma amando se stessi.
Nel sentire comune, l’amore di sé suona come amor proprio, egocentrismo, ambizione, vanagloria… narcisismo direbbe il Vescovo. Un amore questo diametralmente opposto all’amore cristiano che esige l’amore de gli altri, fino alla rinuncia totale a se stessi: “Se uno non rinnega se stesso…”. Eppure … l’amore di sé e l’amore del prossimo sono due facce dello stesso amore: se non amo me stesso, nemmeno riesco ad amare gli altri; se non amo gli altri non riesco ad amare me stesso. La persona che non ama se stessa non ama nessuno. Solo un certo modo di amare se stessi contrasta con l’amore degli altri; anzi, a rigore, egoismo e narcisismo non sono nemmeno amore di sé: nella concentrazione su se stessi, si ha sempre paura di perdere qualcosa, di dover dividere qualcosa; si è sempre in attesa di qualcosa che ci manca e lo si pretende da parte degli altri… Invece è “dando che si riceve”.
Il fatto è che se io non amo me stesso, se non mi piaccio, andrò continuamente in cerca di qualcuno che mi ami, che mi approvi, mi confermi, che mi dica “ho bisogno di te”, che dipenda da me. Se invece sono contento o almeno mi accontento di quello che sono, mi sento libero di amare, libero di mettere in moto le mie risorse. Se non mi amo, sono come inceppato, bloccato, sempre preoccupato di me. Ciò che inquina il cosiddetto amore per gli altri è spesso proprio la mancanza dell’amore di sé. Di fatto non sempre “l’a more del prossimo”, “il bene dell’altro” è puro, è autentico.
Trovo persone pronte a far del bene; ma guai se non lo accetti. Trovo persone umili; ma guai se le inviti a tirarsi in disparte. Mi fido di più di quelli che non mi “vogliono bene”: mi lasciano più libero; sono più schietti quando mi parlano. Non mi piace l’amore-dovere. Non mi piace chi si preoccupa “del mio bene”. Il comandamento “Ama il prossimo come te stesso” non indica solo una misura per l’amore del prossimo: “ama gli altri almeno tanto, quanto ami te stesso”; ma indica anche la modalità, il come esprimere l’amore per l’altro. Il comandamento dice anche la condizione per amare gli altri: “ama te stesso, se vuoi amare gli altri”; anzi: puoi amare gli altri più di te stesso, così come ha fatto Cristo, solo se ami anche, e prima, te stesso. Il credente ha tre persone da amare: Dio, il prossimo e se stesso.
Il problema sempre aperto è quello di mettere d’accordo l’amore di sé, con l’amore dell’altro, di coniugare l’io con il tu, di arrivare al noi dell’amore reciproco. Mi spiego con l’esempio di un convoglio ferroviario: tra un vagone e l’altro c’è una catena che li tiene uniti e un respingente che impedisce di tamponarsi. Nelle relazioni umane c’è una catena, l’amore che permette all’io e al tu di viaggiare insieme; c’è un respingente che li tiene a debita distanza: è il rispetto che permette all’altro di essere se stesso. Non posso qui descrivere le tappe del viaggio e le stazioni di agganciamento. Posso solo assicurare che a ottant’anni sono ancora addetto alla mia ferrovia.
don Remo Vanzetta