Quando entrammo alla Caritas diocesana (anzi, allora era il Centro diocesano Caritas) per iniziare il periodo di servizio civile come obiettori di coscienza, fummo accolti da un sacerdote dai modi affabili e cordiali, per quanto molto energici. Don Giampaolo Giovanazzi era infatti, al tempo, il direttore di una realtà che ha segnato in molti modi la nostra vita, umana e professionale. Di lui ci colpì immediatamente la fedeltà assoluta e la piena condivisione del movimento dell’obiezione di coscienza. Difese sempre, a volte anche con parole forti, i principi e le motivazioni di una scelta non propriamente popolare negli anni ‘80 e, soprattutto, difese sempre noi, i giovani che si mettevano a servizio della gente, “la vera patria da servire”. E con noi fu giustamente esigente, sposando in toto le indicazioni di Caritas Italiana che chiedevano che l’obiettore Caritas seguisse corsi di formazione permanente, facesse esperienza di comunità e fosse al servizio dei più fragili della società.
Il tutto condito da un dinamismo che era un suo tratto distintivo e che lo portò più volte a intraprendere progetti e iniziative innovative, anche all’estero, spesso rivolto ad Est (la Polonia in particolare), quando in pochi pensavano a queste cose e non era per niente facile andare oltre cortina.
Don Giampaolo seppe riscostruire l’ambito Caritas con metodo e innovazione, valorizzando il gruppo di direzione, il consiglio, facendo nascere apposite commissioni per sviluppare soprattutto uno stile, ch’era il passaggio dalla vecchia POA, quasi pura assistenza, ad una modalità, come non smise mai di definirla, essenzialmente pedagogica.
L’aspetto fondamentale che ci insegnò – e che tornò utile nel nostro continuare l’impegno nella direzione della Caritas – fu appunto quello di una carità che non può essere ridotta a semplice elemosina, che non va confusa con questioni di “buon cuore” e che non può esimersi dall’esigenza di una imprescindibile giustizia sociale. “Non dare soldi per strada”, sosteneva più volte, “ma cerca di capire come aiutare le persone davvero, al di là di qualche spicciolo”.
Ha vissuto anche lui tempi di incomprensione, e il suo stile non sempre è stato condiviso, ma non ha mai ceduto ai compromessi. Così come non si è mail allontanato dai nostri ambienti. Ha sempre cercato di accompagnare anche gli ultimi avvenimenti facendosi sentire di quando in quando, magari intento alla ricerca di sue vecchie pubblicazioni (altra sua passione), sempre con quel tono gioviale che non ha mai cessato di renderlo un amico sincero, fors’anche influenzato dalla sua appartenenza al movimento scout.
Per molti di noi è stato un buon maestro, ma anche un compagno fedele con cui abbiamo trascorso tempi straordinariamente carichi, in alcuni casi anche litigando e discutendo, ma finendo sempre per sorridere e riprendere il cammino della vita. Siamo sicuri che il suo sorriso ci attenda ancora, in un altro tempo, su un’altra strada.
Alessandro Martinelli e Roberto Calzà