Capitolo 2

LA REALTÀ E LE SFIDE DELLA FAMIGLIA

Leggere i segni dei tempi

Film

(Jonathan Dayton, USA 2006, 101’)

La bizzarria dei personaggi e dei rapporti che li legano fa riflettere sul fatto che, oltre i problemi e le assurdità, c’è qualcosa di più profondo.

(Erik Gandini, Svezia 2015, 76’, Documentario)

Il documentario dell’italiano Erik Gandini mostra i retroscena di un’autonomia divenuta una vera ideologia, incapace di nutrire l’animo sociale ed affettivo della persona esasperandone, piuttosto, l’individualismo.

Musica

Introduciamoci all’ascolto di un capolavoro musicale, la Nona sinfonia op. 125 di Ludwig van Beethoven, in particolare il terzo e il quarto tempo. Il terzo tempo (che dura circa 19 minuti e mezzo) è un Allegro molto e cantabile. Inizia con un tema calmo, limpido, quasi a implorare una pace intima, del cuore. A esso segue immediamente un tema più imperioso, in un continuo alternarsi di evocazione di pace e di tumulto interiore. A questo terzo tempo, che viene a spegnersi nella contrapposizione tra questa ricerca di pace e l’affanno invece della vita quotidiana, con le sue ansie e passioni, segue il quarto e più complesso tempo, definito il «tempo della gioia». Dura circa venticinque minuti ed è dominato dall’Inno alla gioia di Schiller. L’orchestra è affannosamente alla ricerca di un tema con cui musicare la gioia. Una vera e propria ‘pantomima’, nella quale singoli strumenti provano ad abbozzare proposte, puntualmente e repentinamente bocciate dall’orchestra con un sonoro diniego. Finché, sommessamente, dapprima in pianissimo, comincia a emergere un tema, abbozzato dai bassi e poi via ripreso dai violoncelli e dai fagotti, fino a prorompere in un crescendo degli archi. Eccolo, finalmente… Un andamento marziale, ma una marcia non militare, ma appunto di gioia. Ancora però non basta per cantare la gioia finalmente trovata. Occorre ancora un elemento: la voce umana. Interviene il baritono: «Amici, non più queste note, questi accenti»… E intona la prima strofa dell’Inno: «Gioia, bella scintilla divina, figlia del cielo, noi entriamo con animo entusiasta, o celeste creatura, nel tuo santuario!». Ora canta il coro: «Il tuo potere mirabile riunisce di nuovo ciò che costumi crudeli hanno separato. Tutti gli uomini diventano fratelli là dove si posa la tua dolce ala». E ancora: «colui che ebbe la grande fortuna di essere amico a un amico, chi ha avuto in sorte una moglie soave unisca il suo giubilo!». Coro e orchestra sono ormai inseparabili e proseguono fino a vagheggiare, con intensa religiosità, il riunirsi di tutta l’umanità in un unico, caldo abbraccio…

 

Lettura

 

Arte

Non l’ho mai visto. Non l’ho mai udito.

Non l’ho mai fiutato, toccato, assaggiato.

Non l’ho mai sentito. Non l’ho mai sentito nominare.

Non ne ho mai saputo nulla. Non l’ho mai sognato.

Non l’ho mai voluto. Non mi è mai mancato.

Non l’ho mai perduto. Non l’ho mai trovato”.

 

Questo breve testo tratto da Mi ami? di Ronald David Laing, può introdurci all’incontro col mistero di questa famosa e inquietante tela di Magritte (1898-1967), intitolata Gli amanti, di cui esistono due versioni simili dello stesso anno (1928). Non è mai facile entrare nelle opere di questo artista belga di cui il critico Renato De Fusco scrive: “Forse è la mente più acuta del Surrealismo ed in pari tempo, nonostante la sua programmata anti-artisticità, uno dei suoi maggiori poeti”. Per anti-artisticità si intende il fatto che la poetica pittorica di Magritte,

ricca di elementi ricorrenti (foglie, uccelli, corpi femminili, occhi, case …) fa sì che ogni sua tela costituisca qualcosa che appella al pensiero, piuttosto che allo sguardo; egli non vuole condurci ad una lettura simbolica, perché le sue immagini “non rimandano” a qualche significato altro, perché “sono esse stesse” significato. In tal modo siamo chiamati esplicitamente non a spiegare, ma ad andare al di là dell’evidenza, che per Magritte risulta ingannevole, illusoria; ciò che conta, a suo parere, non è tanto la qualità tecnica (sebbene esistano bellissimi suoi quadri da un punto di vista squisitamente tecnico), ma il pensiero che la sua pittura genera nella mente dell’osservatore. Ogni sua creazione è capace allora non solo di stupire ma, ancor più, di disorientare chi la guarda. All’artista infatti interessa, con una buona dose di ironia, sconvolgere ciò che l’occhio si aspetta di vedere, e per questa ragione le sue tele diventano degli enigmi che intendono porre un problema e stimolarci ad una presa di posizione, senza mai lasciarci indifferenti o passivi, o limitarci a formulare un giudizio distaccato. Ricordiamo che dopo essersi lasciato alle spalle un’adesione al Cubismo

ed al Futurismo, Magritte era rimasto profondamente segnato dalla scoperta dell’arte metafisica di Giorgio De Chirico, ed è proprio a partire da questo fatto che aveva deciso di dedicarsi ad una ricerca più teorica che formale. Dice, al riguardo, lo storico dell’arte Federico Zeri: “Il linguaggio specifico della pittura, la sua materia composta di pennellate, luce e colore, cede il posto alla dialettica tra visione e valore della percezione visiva, della sua verità di comunicazione e rappresentazione del reale”. Magritte amava, dunque, meditare e far pensare attraverso le sue immagini dipinte, definite per questo dei pensieri visibili capaci di mostrare ciò che il visibile stesso e le comuni apparenze nascondono (M. Paquet).

Anche di fronte a questi due volti nascosti che si baciano siamo costretti a fermarci e a chiederci non solo chi siano i due soggetti raffigurati, ma cosa significhi realmente questo mascheramento: si tratta forse di rappresentare la realtà di un incontro con l’altro che pur essendo amato non può mai essere conosciuto del tutto … oppure di raffigurare l’accecamento che provoca la passione dell’innamoramento … oppure questi panni che coprono i lineamenti sono segno della falsità di una relazione, in cui c’è il deciso intento o la paura di non volersi rivelare all’altro … “Resta il fatto che il bacio fra i due amanti è decisamente conturbante, che parla di morte e dell’impossibilità di comunicare. Nascosti dietro i loro sudari, si scambiano un amore muto, incapace di un linguaggio diverso da quello del corpo … Siamo di fronte ad un’umanità negata nelle sue caratteristiche essenziali, mutilata della sua individualità” (D. Quaranta). Vediamo infatti un paradosso, come è tipico in Magritte che ci fa entrare nel gioco sottile di un enigma: da una parte un contatto fisico travolgente e dall’altra l’assenza di uno sguardo, da una parte l’incontro e dall’altra l’isolamento. Il drappo nasconde le singole identità, ostacola una comunione sincera, consente di mantenere una distanza e l’anonimato: infatti qui è negato proprio il volto, cioè ciò che manifesta l’uomo nel suo essere ri-volto all’altro, nel suo essere con e per l’altro. Celati dietro un panno e privati del senso della vista e del tatto, a questi amanti, borghesi nei loro indumenti contemporanei, sembra vietato conoscersi nel più sincero profondo. Qualcuno pensa fatalisticamente che questa sia una dinamica inevitabile dell’amore tra un uomo e una donna, in cui, prima o dopo, uno o entrambi i partner, sono condannati a recitare una commedia confusa ed incomprensibile, dove alla fine nessuno sa più cosa deve imitare, a che scopo deve ingannare, quale maschera indossare, così come viene rappresentato nella tela. Tuttavia è lo stesso artista ad offrire una contro-risposta esistenziale a questo disincanto, con la testimonianza della bella storia d’amore vissuta con la sua donna. È questo un aspetto poco conosciuto ma affascinante di Magritte per il quale è “Felice colui che per amore di una donna è disposto a tradire le proprie convinzioni”. L’amore vissuto con Georgette Berger (1901-1986) è proprio il segno di una relazione continuamente rilanciata e resa stabile fino alla fine. Dopo averla sposata nel 1922, Magritte farà della moglie la musa ispiratrice di molte sue opere. La sua figura elegante ed il suo volto grazioso vengono visti certamente dall’occhio del pittore che ha realizzato un quadro problematico come Gli amanti, tuttavia si tratta del medesimo occhio che nella vita reale è diventato capace di vedere con serenità il volto dell’amata, progressivamente rivelato nella relazione coniugale. L’artista saprà sempre mantenere questo sguardo innamorato sulla donna conosciuta ancora da adolescente, che lo accompagnerà fino alla fine suoi giorni. Ancor oggi, i due sono sepolti insieme nel cimitero di Schaerbeek, nei dintorni di Bruxelles. Queste due facce contrastanti della stessa realtà, di nascondimento nel dipinto e di svelamento nella vita coniugale, ci fanno pensare a quanto possa essere stata rilevante per ogni adulto, quella che chiamiamo una crisi per difetto e una crisi per eccesso. Scrive al proposito Daniele Loro: “Un’esperienza di crisi è, di solito, un’esperienza per difetto, nel senso che ci si può trovare di fronte ad un’improvvisa mancanza, dovuta al venir meno di ciò che si sta vivendo: ad es. la perdita del lavoro, il fallimento di un progetto, la fine di un legame affettivo, la perdita di una persona cara, la dissoluzione delle proprie convinzioni, il passaggio al pensionamento, ecc. Può essere anche una crisi per eccesso, che si ha quando si vive qualcosa che non appare racchiudibile totalmente entro gli schemi o le convinzioni della propria vita. È il caso, ad esempio, dell’esperienza estetica o affettiva, quindi l’incontro con qualcosa (o qualcuno) di profondamente bello che appare del tutto “differente” da tutto ciò che si è conosciuto o sperimentato in precedenza, mentre ciò che si conosceva fino a quel momento si rivela all’improvviso come relegato su uno sfondo “indifferente… Dunque, la situazione di crisi, qualunque ne sia la ragione, è profondamente destabilizzante; pertanto essa provoca ad interrogarsi sia a riguardo di ciò che si sta vivendo, sia a proposito di quello che si è vissuto fi no a quel momento. E se quel significato lo si ricerca, non in vista dell’agire ma in vista di una più profonda comprensione di ciò che si è, o che si è stati, allora la riflessione va nella direzione della parte “più interna” di sé e l’adulto si trova alle soglie della sua vita interiore, come luogo del sapere del senso del proprio esistere!” Forse è possibile allora considerare Gli amanti di Magritte come il frutto artistico di un profondo processo di ricerca di senso, come espressione della sua vita interiore, perennemente in conflitto tra la minaccia della morte e della solitudine da un versante, ed il bisogno di vita e di amore dall’altro.

 

Silvia D’Ambrosio e don Antonio Scattolini

Diocesi di Verona, Servizio per la Pastorale dell’Arte Karis

 

Questo testo ha preso forma a partire da due esperienze: la Settimana Nazionale sul Secondo Annuncio (Santa Cesarea Terme, luglio 2016) e il Laboratorio sul Secondo Annuncio con l’Arte (Desenzano del Garda, luglio 2016). Il commento è stato arricchito anche dal contributo dei membri di entrambe le Equipes nazionali e dei partecipanti alle due esperienze.